Un contributo importante quello di Sebastiano Renna, Sustainability Manager in SEA Aeroporti e voce di spicco in un’area chiave del profit di cui tanto si parla ma sulla quale si investe ancora poco: la responsabilità sociale d’impresa.

Ecco il suo contributo in 14 step. Pulito. Maturo. Esplicito. Accademico. Utile per capire di che cosa stiamo parlando e strategico nell’approccio a una delle discipline della raccolta fondi più stimolanti: il corporate fundrasing. Renna ci descrive l’attualità della CSR e ci indica il sentiero che l’impresa consapevole, attenta e responsabile dovrebbe imboccare. A noi professionisti fundraiser dà gli strumenti per analizzare preventivamente se vi siano o meno le condizioni per parlare di opportunità. Vediamoli insieme. Le vostre considerazioni saranno come sempre le benvenute.

  1. Un fantasma si aggira per le aziende di tutto il mondo: è la Corporate Social Responsibility (CSR). E’ in auge da più un quarto di secolo, ma non è ancora riuscita ad oltrepassare la soglia dell’impalpabilità e determinare un vero cambiamento nel modo di gestire – sia a livello manageriale che di policy – i processi economici.
  2. Il peccato originale della CSR è il suo quasi esclusivo accento sull’aspetto redistributivo del valore, funzionale agli interessi sia delle imprese (che hanno conservato il business as usual al riparo dietro il paravento del marketing socio-filantropico) che dei governi (alle prese con la crisi dei sistemi di welfare e, più in generale, con i problemi di stabilità dei bilanci pubblici).
  3. La connessione tra responsabilità sociale e competitività risulta a tutt’oggi vaga e indimostrata. E’ infatti difficile dimostrare qualcosa che si manifesta assai raramente. La stragrande maggioranza delle attività di CSR non è concepita dalle imprese per incrementare la competitività, ma per ottenere una license to operate, un credito reputazionale, un posizionamento d’immagine.
  4. Il nocciolo di un vero discorso sulla sostenibilità e sulla responsabilità dei processi economici sta nella gestione del rischio d’impresa. Il rischio d’impresa rappresenta la possibilità (sensibilmente in ascesa, in un sistema economico governato da una crescente complessità e interdipendenza) che il profitto non venga raggiunto e gli azionisti non vengano remunerati. Il modo in cui azionisti e management decidono di affrontare questo rischio è decisivo rispetto al profilo di sostenibilità attribuibile all’impresa.
  5. La modalità prevalente di gestione del rischio da parte delle imprese consiste nella “estrazione di valore” dagli stakeholder. Il profitto viene perseguito traslando indebitamente sugli stakeholder rischi e costi che dovrebbero fisiologicamente gravare sull’impresa. Questo processo di estrazione viene perpetrato in innumerevoli modi da parte di tutte le imprese, comprese quelle che si dichiarano maggiormente impegnate sul fronte della CSR.
  6. E’ giunta l’ora di accantonare una volta per tutte la presunzione che la sostenibilità economica sia il risultato dell’innesto di valori morali – come solidarietà, fratellanza, altruismo – sul business. I valori morali sono variabili esogene rispetto ai processi economici, che possono solo limitarsi a subirne l’influenza. E’ profondamente deviante, oltre che illusorio, ritenere che un’economia responsabile e sostenibile si possa ottenere attraverso una formazione sulla “business ethics” rivolta ai manager.
  7. E’ semplicistico dire che il processo di deragliamento etico che porta le imprese a perseguire profitto estraendo valore dai propri stakeholder sia frutto della malvagità e dell’egoismo dei manager e degli azionisti. La malvagità e l’egoismo sono, per buona parte, conseguenza di altri fattori: gap di conoscenza, incapacità di misurarsi con la complessità del business, inerzia mentale, refrattarietà al cambiamento. La malvagità e l’egoismo sono pulsioni in parte ineliminabili nella natura umana. Ciò che si può contrastare sono piuttosto le profonde inadeguatezze di tipo cognitivo che alimentano e amplificano queste pulsioni.
  8. La maggior parte di coloro che teorizzano, pontificano, dibattono accademicamente, assumono la responsabilità di agenzie ed enti dedicati, si propongono quali opinion leader in merito ai temi della CSR, appartengono a scuole di pensiero economico di vecchia concezione, imbevute di meccanicismo, riduzionismo, pensiero lineare. Loro vedono la CSR come qualcosa da aggiungere al business. Si fermano, al più, a concepire un modo di fare business che non abbia il profitto come fine, oppure individuano nicchie di produzione di beni e servizi che il business tradizionale disdegna. E attribuiscono a tutto questo l’etichetta di “sociale”.
  9. La modalità alternativa – attraverso cui fronteggiare il rischio d’impresa – a quella prevalente dell’estrazione di valore dagli stakeholder è rappresentata dall’innovazione. L’innovazione non è una delle tante opzioni competitive disponibili. L’innovazione è la ragione profonda del “fare impresa”. L’impresa dà legittimità all’ottenimento del profitto solo se fronteggia il rischio rompendo l’equilibrio preesistente e portando se stessa e tutto il sistema ad essa collegato su un nuovo punto di equilibrio, a sua volta destinato ad essere messo presto in discussione. L’innovazione (di prodotto, di processo, organizzativa, del modello di business) è l’essenza stessa dell’agire economico sostenibile.
  10. Ciò che rende sempre più imprescindibile l’innovazione è l’incremento di complessità dell’ambiente economico e sociale che l’impresa si trova a fronteggiare. La complessità e l’interdipendenza del sistema socio-economico rendono sempre meno efficaci le tradizionali strategie basate sull’analisi. Queste ultime affrontano la complessità con l’obiettivo di ridurla. Una delle modalità di riduzione della complessità preferita dalle imprese e l’estrazione di valore dagli stakeholder. Da qui nasce il deragliamento etico.
  11. Non c’è bisogno di spulciare gli articoli su Harvard Business Review scritti dai nuovi guru della “corporate strategy” per alimentare l’intuizione del profondo legame esistente tra sostenibilità e innovazione. E’ sufficiente tornare indietro di un secolo e andare al pensiero del più visionario e profetico degli economisti del ‘900: Joseph Alois Schumpeter. Per Schumpeter l’imprenditore non è colui che detiene il capitale e prende le decisioni amministrative dell’azienda. Il titolo di imprenditore va solo a chi è vettore d’innovazione per l’impresa e pone quest’ultima su un sentiero di equilibrio dinamico. L’imprenditore, per Schumpeter, può essere chiunque: un fornitore, un dipendente, un cliente capaci di portare un contributo determinante per far avanzare l’impresa.
  12. La lezione di Schumpeter si salda profondamente con la sostenibilità nel seguente modo: la propensione all’innovazione in sé non è sufficiente a rendere sostenibile l’impresa. E’ necessaria una nuova governance dell’innovazione che diventa inevitabilmente una nuova governance dell’impresa stessa. Gli stakeholder non possono più restare confinati nel ruolo di destinatari di una quota del valore sociale prodotto dall’impresa, ma vanno intesi come decisivi alleati delle “politiche di generazione del valore”. L’impresa che coniuga sostenibilità e competitività è innanzitutto quella capace di ripensare le proprie logiche di business attivando intensi processi di generazione e condivisione sociale della conoscenza.
  13. Va ribaltata la tradizionale visione che in questi ultimi decenni ha fatto scaturire una concezione di CSR preoccupata esclusivamente di trovare forme di conciliazione tra esigenze di profitto ed esigenze di contenimento delle ripercusioni sociali. La Società va finalmente vista come un luogo di accumulazione di conoscenze assolutamente imprescindibili per un successo di lungo periodo dei progetti di business. L’azienda sostenibile è dunque un’azienda che progetta con gli stakeholder, che assegna loro dignità di interlocutori competenti – ai quali dischiude la “scatola nera” della propria governance strategica – e che opera secondo l’approccio shared risk, shared reward (condivisione del rischio e dei profitti). La visione di Schumpeter non è poi così azzardata.
  14. La più importante consapevolezza capace di guidare i manager verso la sostenibilità è quella relativa alla comprensione dei propri limiti cognitivi e la conseguente rinuncia alla rozza ambizione del controllo. La conoscenza necessaria a portare le imprese verso il successo è dispersa. Nessun board manageriale potrà mai ottenere contestualmente successo economico e sostenibilità se continuerà ad agire autoreferenzialmente.

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GUEST POST. Thank to:

Sebastiano Renna, dal 2001 al 2009, CSR & Corporate Communication Manager del Gruppo Granarolo. Dal marzo 2011, Sustainability Manager presso SEA (Aeroporti di Milano). Presidente di CSR Manager Network Italia nel biennio 2008-2010. Docente a contratto sui temi del “Sustainable Accounting” presso la Facoltà di Economia dell’Università di Ferrara e membro del Laboratorio sulla CSR della Facoltà di Economia dell’Università di Parma. Il suo blog: Oltre la Csr.

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