Do what you love every day - inspirational handwriting on a napkin with a cup of coffee

Tra il 1987 e il 1988 avevo 14 anni e frequentavo la seconda superiore. Non ho fatto il liceo bensì un istituto tecnico. A quei tempi, la scuola superiore era sufficiente per trovare un lavoro e il diploma era una grande cosa. Il lavoro ce l’avevi assicurato o quasi. Non sono mai stata una secchiona ma ho sempre studiato molto. Quell’anno, però, ero in decisa difficoltà. Chimica e matematica erano un incubo. Mamma e papà non potevano aiutarmi così mi hanno mandata a ripetizioni sia dell’una che dell’altra. Non privatamente. Ai miei tempi, che strano dirlo, le ripetizioni si facevano per la maggior parte in gruppo. Tanti studenti di età diverse intorno a un tavolo seguiti dal professore che si occupava di noi tutti.

Li ricordo ancora, non i loro nomi – ahimè – perché gli anni trascorsi sono molti, ma i loro modi sì. Erano fratello e sorella. Due gran teste. Sapevano passare da un argomento all’altro con una facilità che mi pareva incredibile.

Grazie alla loro competenza e al loro modo di trasferire i concetti, ho superato le mie difficoltà e l’anno a giugno. Più importante, però, ho appreso come studiare per bene. Per la prima volta ho provato quella cosa che si chiama “illuminazione”, quel momento affascinante e unico in cui tutto ti appare chiaro e semplice.

L’anno successivo, in terza superiore, l’arrivo del nuovo professore di italiano, Francesco Marotta che ricordo ancora con molto affetto, ha contribuito a far crescere la consapevolezza che avrei potuto contare sulle mie possibilità e che quello che sarei stata dipendeva solo da me. Potevo scegliere! Ho imparato ad applicarmi allo studio con maggiore slancio e minore apprensione.

Qualche anno dopo, l’università. Le uniche lezioni a cui non potevo mancare e che seguivo incantata erano quelle di Economia Politica del compianto professore Carlo Antonio Ricciardi, lo spauracchio di intere classi di studenti alla Iulm, e di Economia della cultura e dell’arte dell’allora sua assistente Angela Besana, la docente che mi ha fatto incontrare e appassionare al fundraising.

Ricordo ancora la prima lezione in cui il professor Ricciardi partì raccontandoci la differenza tra economia ed econometrica. Diceva:

per capire veramente una materia, occorre avere chiaro il significato delle parole.

Detto in altri termini, nel capire le sfumature, si mette ordine e tutto diventa più comprensibile.

Applico ancora quanto appreso allora. Quanto mi è stato trasferito mi ha dato le chiavi di lettura per comprendere e scegliere come comportarmi nelle diverse occasioni che la professione mi presenta.

A loro modo, queste persone hanno determinato ciò che sono ora, contribuendo a costruire pian piano quel senso di educazione alle materie trattate che mi fa andare oltre i numeri (che hanno senso sì, ma presi da soli rimangono numeri); a chiedermi il perché delle cose, contribuendo a rafforzare in me la necessità di dedicarmi solo a ciò che mi piace e mi appassiona, perché solo così le cose risultano semplici e si fanno davvero bene, da amatori.

L’approccio al mio lavoro di consulente e formatore nasce su queste basi, con la convinzione che non siamo scatole vuote da riempire, bensì vissuti e convinzioni da riorganizzare.

Nei giorni scorsi, ho raccontato questo e altro su Orwell.live, una rivista online internazionale, in un’intervista curata dal giornalista Marco Giorgetti in cui ho parlato liberamente e diffusamente di fundraising e del mio approccio alla professione. Se vorrai leggerla e condividerla, mi farà piacere.

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