Le buone intenzioni non bastano più. Nella progettazione e programmazione, il Terzo settore deve imparare dall’esperienza della ricerca accademica. Questo è quanto ci esorta a fare Domenico Maria Caprioli, esperto di trasferimento tecnologico e supporto alla ricerca che il prossimo venerdì darà il via, insieme a Julienne Vitali, al corso online di 12 ore sui Fondi Europei promosso dalla Fundraising Academy. Buona lettura.

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Il mondo della ricerca e del trasferimento tecnologico è, apparentemente, molto distante dalle attività del terzo settore, tuttavia – a praticarli entrambi – ci si accorge di come essi convergano non solo in molti sistemi di prassi ma anche, sorprendentemente, sotto il profilo umano.

Prendetelo come un divertissement, ma vi propongo di partire – per questo ardito parallelo – da un atteggiamento con il quale abbiamo, probabilmente, tutti familiarità: la trenodìa sulla carenza di fondi.
Tanto il terzo settore quanto la ricerca accademica lamentano – da anni – l’affievolirsi delle misure di sostegno alle loro attività e la necessità di cercare altrove i fondi necessari. Nel caso della ricerca, l’Altrove è, soprattutto, il programma quadro della Ricerca Applicata della Commissione Europea, quello che dal 2021 al 2027 si chiamerà Horizon Europe.
Le università italiane sono state, pertanto, indotte ad aprirsi alle collaborazioni, abbracciando un sistema non solo scientifico ma, prima di tutto, organizzativo, significativamente diverso da quello nazionale.
Con quale esito? Dipende. Questo processo ha, purtroppo, determinato una polarizzazione fra i soggetti che hanno scelto di strutturarsi per la ricerca europea e quelli che non l’hanno fatto. Oggi l’Italia dispone, pertanto, di alcune università con success rate fra i più alti in Europa e molti atenei nei quali, invece, non si registrano progetti di ricerca vinti.
Probabilmente è una buona idea adottare il mondo della ricerca come case study per il terzo settore, con l’intento di provare a definire un sistema di prassi credibile, per disporre al cambiamento gli attori del sociale.
Quale lezione possiamo apprendere dall’università?
Due, prima di tutto:
  • la prima è che l’Europa è una grande opportunità. Le università italiane che concorrono abitualmente ai progetti europei hanno fortemente accresciuto la disponibilità di fondi. Non solo. Stabilire nuove relazioni ha migliorato la capacità di placement degli studenti, con un effetto positivo sulle iscrizioni e sulla ricerca industriale;
  • la seconda è che non bastano le buone intenzioni. Per accedere alla finanza competitiva europea non è sufficiente desiderarlo, è necessario intraprendere un lavoro iterativo di organizzazione, formazione e approfondimento.
Le organizzazioni vincenti hanno in comune alcune caratteristiche che possono essere sussunte in uno slogan: fare della programmazione europea una funzione strategica permanente.
Questo approccio può essere declinato in vari modi. Fra le università europee è prassi comune avere un intero dipartimento deputato alla scrittura dei bandi, strutture con decine di persone specializzate nella scrittura di proposte ma anche nella scrittura di saggi scientifici, che raccolgono elementi dai ricercatori e li convertono in prosa, tabelle e infografiche. Si tratta – evidentemente – di un investimento significativo, che forse pochi atenei italiani sarebbero in grado di sostenere ma la scrittura costituisce una fase, certo, determinante, tuttavia meno strategica delle altre.
Ciò che si configura come indispensabile è, invece, internalizzare la strategia di posizionamento europea e – possibilmente – centralizzarla.
Centralizzare la funzione di scouting, per esempio, ma anche quella di orientamento; centralizzare, ove possibile, una funzione di lobbying e advocacy che – nel mondo della Ricerca come nel Terzo settore – si sostanzia, principalmente, della partecipazione interattiva ai numerosi eventi organizzati dalle istituzioni europee per interagire con gli stakeholders.
Uno dei principali benefici conseguiti dalla ricerca italiana attraverso la programmazione europea è costituito dall’irrobustimento delle relazioni e dei partenariati sia con altre università, italiane o estere, sia con le aziende, che ha comportato un generale miglioramento delle performance della ricerca e, in molti casi virtuosi, la creazione di consorzi permanenti vincenti e di collaborazioni proficue con il settore privato.
La capacità di identificare partenariati in grado di aggiungere valore e impatto ai progetti costituisce un’altra funzione determinante, che è necessario esercitare permanentemente.
I progetti europei, in questo modo, finiscono con l’assumere uno scopo ulteriore, come occasioni di incontro e connessione con partner strategici: ciò accresce le capacità di successo e, indirettamente, genera un valore che va oltre il progetto, promuovendo benefici più saldi e sicuri, indipendenti dal successo del bando.
Affinché queste opportunità si realizzino, è necessario investire in risorse capaci di sviluppare una visione europea e trasferirla ai partner e – in ultima istanza – a coloro che scriveranno la proposta. Visione, capacità di programmazione e strategia devono essere, pertanto, coltivate all’interno delle organizzazioni, così come la capacità di stipulare partenariati funzionali. L’operazione di scrittura delle proposte può, invece, essere esternalizzata, con la consapevolezza che essa sortirà la sua efficacia solo a valle di un processo di preparazione adeguato.

Ti sei perso il webinar sull’Europa dello scorso 4 febbraio?
Puoi rivedere l’intera registrazione qui:

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Julienne Vitali e Domenico Maria Caprioli ti aspettano nell’aula “virtuale” della Fundraising Academy i prossimi 26 febbraio, 5 e 12 marzo 2021 con il corso Fondi Europei. Strategie e laboratorio di progettazione. 12 ore di formazione per progettare in Europa.

FONDI EUROPEI. STRATEGIE E LABORATORIO DI PROGETTAZIONE

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