Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Verità sacrosanta. Quindi che fare quando l’organizzazione – o, per la precisione, il suo board – nonostante l’entusiasmo e gli sforzi del fundraiser, non accetta di cambiare approccio ed evolversi?

Nel post scorso, ho parlato delle 5 ragiorni del flop di una campagna di fundraising mettendo il fundraiser al centro delle sue responsabilità. Ma il commento di Marina ha spostato l’attenzione verso un aspetto più delicato e spiazzante.

(…) ce n’è una sesta che è devastante: la tua governance è fatta di ignoranti e incapaci senza speranza, per i quali fundraising potrebbe essere un insulto, e l’accountability un mistero della fede…

La denuncia di Marina è secca e senza giri di parole. Ho voluto saperne di più. Vi posto quanto mi ha scritto. Sono certa che accoglierete con favore il suo invito al confronto su questa provocazione che solleva una questione purtroppo più comune di quel che si pensi: governance cieche e autoreferenziali che finiscono con il diventare più un freno per l’ONP che una risorsa.

Credo che tra le competenze di un bravo fundraiser ci debba essere la sensibilità a cogliere la concreta possibilità di sviluppo di un’ONP. Non tutte, infatti, sono suscettibili di crescita. In alcuni casi, che sfortunatamente mi è toccato approfondire per lunghi anni, tale prospettiva evolutiva non c’è, a meno che non si verifichino eventi straordinari e rivoluzionari che vadano a sostituire individui o a travolgere mentalità statiche, arcaiche e, sovente, antidemocratiche.

  1. Il primo ostacolo consiste nella frequente mancanza di interesse e motivazione per la mission dell’ONP da parte di presidenti e consiglieri, che accettano il ruolo solo per ragioni di prestigio. Difficoltà eguale e contraria, l’eccessivo coinvolgimento, che impedisce lo sguardo d’insieme e induce a coltivare orticelli disseccati e sterili. Entrambe le situazioni producono immobilismo.
  2. I direttori così (spesso donne) si trovano a fare gli eroi solitari, e sono tuttavia ricattabili, e inevitabilmente subalterni agli interessi e alle ubbie del finanziatore più importante, con grave pregiudizio dell’autonomia, dell’accountability, e di una pianificazione che punti all’efficacia oltre che all’efficienza.
  3. Lo staff, generalmente precario, non può avere la tranquillità e la motivazione per lavorare con serietà e costanza.
  4. Manca il controllo di gestione e i bilanci sono redatti all’unico scopo di essere presentabili.
  5. Dal fundraiser ci si aspetta che compia la magia in contesti lavorativi demotivanti e squallidi.

Ora, sono pochi i casi in cui tutte queste ipoteche gravano contemporaneamente su una ONP. Ma si tratta di caratteristiche più ricorrenti di quanto si possa immaginare. Che deve fare il fundraiser in contesti senza trasparenza e/o senza speranza (e badate che non sto parlando delle “finte” ONP)? Il problema si è posto a me come problema essenzialmente etico, e quindi professionale:

  • E’ giusto impegnarsi a chiedere denaro per organizzazioni strutturate in modo da essere sul lungo periodo improduttive e vivacchiare solo per rappresentare per qualche ente un fiore all’occhiello?
  • O è più corretto astenersi dal collaborare, in mancanza delle condizioni perché possano vivere, tenendo presente che è immorale, in particolare in un tempo come il nostro, sprecare denaro, sia esso pubblico, sia privato?

Mi sta molto a cuore l’opinione dei colleghi.

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