Christian Elevati è una gradita conoscenza di Nonprofit Blog. Esperto di cooperazione e di misurabilità, ancora una volta ci accompagna in un tema assolutamente attuale ed affascinante: la misurazione dell’impatto sociale. Nel farlo, ci racconta una storia e usa una metafora, il tennis. Quello che ti presento oggi è un post molto piacevole, piuttosto lungo ma scorre velocemente, vedrai! Ed è proprio il motivo che mi ha spinto a non dividerlo in due puntate. Si legge bene ma, soprattutto, spiega e chiarisce. Ne vale la pena. Buona lettura.

A 10 anni i miei genitori si accorsero definitivamente che avevo l’agilità di un sacco di sabbia e che il nuoto da solo non sarebbe bastato a rendermi un homo erectus. Presero così la decisione, con mia grande gioia (il nuoto mi annoiava terribilmente), di iscrivermi a un corso di tennis.

Non ricordo molto di quell’esperienza sportiva, che fu solo la seconda fra molte altre, ma una delle cose che si è maggiormente fissata nella mia memoria è stata l’insistenza con la quale il maestro nei primi mesi ha lavorato sull’impostazione: la posizione dei piedi e delle gambe (da fermo, quando colpivo la palla o in movimento) la postura complessiva del corpo, la dinamica di spalla-braccio-polso. Oggi che ho 45 anni sono un pessimo tennista, ma quell’impostazione mi è rimasta e quando mi capita di giocare a tempo perso con amici che si improvvisano tennisti posso ancora uscire dal campo dignitosamente a fine partita.

Cosa c’entra con la valutazione dell’impatto sociale? C’entra tantissimo. Perché

qualsiasi organizzazione, grande o piccola, se vuole affrontare con consapevolezza una valutazione dell’impatto sociale – terreno scivoloso e complesso ma ineludible – non può che partire da una impostazione corretta dei “fondamentali”.

Ad alcuni potranno parere banali. Per esperienza, però, posso dire che spesso scivoliamo (parlo anche per me, non è un “noi” retorico) proprio sugli aspetti basilari del nostro lavoro e che l’impegno a tenerli sempre nella massima considerazione non è mai abbastanza. Qui di seguito provo a descrivere alcuni di questi fondamentali, senza alcuna pretesa di esaustività. Di più: invito i lettori a integrare, commentare e intervenire su questa mia riflessione, a vantaggio tutti.

PARTIRE CON IL PIEDE GIUSTO: L’ANALISI DEL PROBLEMA

Se il mio obiettivo è realizzare programmi che si concretizzano in progetti e in attività con l’idea di “risolvere un problema” e quindi di “produrre un cambiamento duraturo”, prima di muovere qualsiasi passo dovrei:

  • conoscere a fondo il problema e il contesto nel quale si situa;
  • individuare obiettivi chiari e realistici;
  • conoscere a fondo le risorse che realisticamente posso o dovrei mettere in campo per raggiungerli.

Questo significa molto concretamente che dobbiamo innanzitutto capitalizzare al massimo delle nostre possibilità tutto quello che è disponibile sul problema e studiarlo approfonditamente. Mi riferisco all’esperienza maturata negli anni dalla nostra organizzazione su quel problema (documenti e progetti precedenti, persone che ci hanno già lavorato, ricerche svolte da soli o in partnership… ), ma anche alla letteratura sul tema, ai dati statistici e ai report di enti di ricerca, università, organizzazioni specializzate nel settore in questione, amministrazioni pubbliche e stakeholders. Voi fareste costruire la vostra casa a un ingegnere che non studia il terreno prima di iniziare a lavorare alle fondamenta? Inoltre: come reagireste se scopriste troppo tardi che proprio di fianco alla vostra nuova casa, di lì a un anno, costruiranno una discarica o passerà una ferrovia? O in positivo: che inaugureranno a breve una fermata della metropolitana a 100 metri dal vostro appartamento, ma voi nel frattempo avete rinunciato a quella casa perché poco servita dai mezzi…

Questo lavoro di analisi preliminare del problema e del contesto ci aiuta anche a capire fin dove possiamo arrivare con le nostre sole forze e a porci degli obiettivi ben definiti e realistici. Potremmo così trovarci di fronte alla necessità di cambiare l’obiettivo inizialmente previsto. Se voglio contrastare la devianza giovanile in un quartiere degradato, forse pormi la piena occupazione a fine progetto dei giovani coinvolti è un obiettivo utopistico, anche considerando che molto probabilmente non riuscirò a incidere – nemmeno in partnership con altri soggetti – sulle dinamiche del mercato del lavoro attuale e nemmeno sulle complesse situazioni che spesso caratterizzano le famiglie di provenienza di questi giovani. Allora, forse, potrebbe essere più realistico:

  • lavorare a eliminare almeno una delle barriere alla piena emancipazione di questi giovani e, così facendo, sgravarli di uno dei pesi che si devono portare sulle spalle per raggiungere una vita dignitosa (il che può significare una crescita della loro fiducia in se stessi, di relazioni positive fra pari e con adulti di riferimento, di una maggiore speranza nel futuro… ).
  • lavorare in rete con altre realtà, del pubblico e del privato, che possano dare concretezza e continuità alla speranza che avremo così faticosamente costruito.

ALLENARSI A GIOCARE UNA PARTITA AL MEGLIO DEI TRE SET (MASSIMO CINQUE)

Quanto fiato ho (quante ore di partita riesco a reggere prima di scoppiare)? In quanti secondi arrivo a rete da fondo campo nel corso del primo set? E nel secondo? A che velocità viaggia la pallina della mia prima di servizio? E della seconda? Quanti errori non provocati commetto mediamente in un match contro miei coetanei di pari livello? Quale tipo di allenamento finora mi ha permesso di migliorare tutti questi parametri? Quale non ha funzionato? Perché?

Se abbiamo dedicato un tempo congruo all’analisi del problema e alla definizione degli obiettivi, abbiamo aumentato notevolmente le probabilità che il nostro progetto sia in grado di produrre proprio il cambiamento sperato. Ma non basta. La strategia e i partner che abbiamo scelto, le azioni che abbiamo pianificato, le risorse (umane, materiali, economiche, relazionali… ) e i tempi che abbiamo preventivato, sono quelle giuste? Già in fase di scrittura dobbiamo avere chiaro come valutare questi aspetti, tenendoli costantemente sotto controllo: occorre una chiara metodologia di monitoraggio, che si sviluppi sulla base degli indicatori e degli strumenti di verifica più pertinenti. E come facciamo a capire quali sono prima ancora di avere iniziato le attività previste? Al di là di quanto già emerso in fase di analisi del problema e del contesto, farsi guidare da un esperto, se non esistono già competenze forti interne, può essere di grande aiuto. Inoltre, se stiamo partecipando a un bando di finanziamento o stiamo richiedendo fondi a un potenziale finanziatore è probabile che il finanziatore abbia già esplicitato alcune linee guida sugli indicatori ritenuti imprescindibili.

Ma anche questo non basta. Dobbiamo coinvolgere tutti i soggetti che parteciperanno a diverso titolo al progetto nella definizione di indicatori e metodi di verifica, e questo almeno per tre ragioni:

  1. Se il progetto non nasce come processo partecipato fra tutti gli stakeholders, avrà scarse probabilità di successo.
  2. La valutazione di impatto può considerarsi veramente tale solo se tutti gli attori hanno voce in capitolo (a partire dai principali soggetti del cambiamento auspicato), anche considerando la varietà di dati da incrociare per giungere a delle conclusioni plausibili.
  3. Il lavoro di monitoraggio e valutazione dell’impatto (e non soltanto degli output di progetto) è impegnativo; a seconda del caso, si andranno a verificare cambiamenti, per esempio, dal punto di vista del benessere sociale o ambientale; delle relazioni, della soddisfazione personale o dell’accountability; dei ritorni economici o finanziari; una valutazione di questa natura deve essere strutturata in modo realistico e sostenibile (anche economicamente) per tutti i soggetti coinvolti e deve prevedere strumenti di verifica alla portata specifica del singolo stakeholder.

IN OGNI CASO, NELLE SCELTE PROGETTUALI E VALUTATIVE SI PROCEDE SPERIMENTALMENTE, PER IPOTESI

Anche l’eventuale esperto esterno in valutazione cui vi sarete appoggiati farà così e, se non lo fa, dubitate della sua professionalità. Perché l’importante non è avere ipotesi inattaccabili (se sono inattaccabili, non sono ipotesi, sono dogmi), ma avere ipotesi realistiche e verificabili e, dunque, migliorabili. I nostri progetti si misurano costantemente con la complessità dei contesti (interni all’organizzazione ed esterni) nei quali ci muoviamo. La nostra abilità sta nel muoverci al meglio in questa complessità, che implica errori e fallimenti. Ma dobbiamo saperli cogliere, gli errori e i fallimenti, altrimenti non potremo mai trasformarli in opportunità di crescita.

In conclusione:

lavoriamo da subito sui fondamentali, sull’impostazione della nostra valutazione di impatto, sulla preparazione necessaria per arrivare a fine gara. Poi giochiamoci la nostra partita di tennis.

Possiamo vincerla o perderla, avere alti e bassi, momenti di euforia e di scoramento, ma avremo dato il massimo e la prossima volta saremo più forti, perché sapremo come mai le cose sono andate così e dove possiamo intervenire per migliorarle.

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Christian ElevatiGUEST POST.

Thanks to: Christian Elevati. Consulente di realtà del Terzo Settore (ONG, Cooperative sociali, Associazioni) accomunate dalla promozione dell’inclusione sociale, dei diritti umani e dell’educazione. Si occupa da oltre 17 anni di progettazione, fundraising (big donors), advocacy, project management, valutazione (ultimamente con particolare attenzione allo SROI), Global Citizenship, networking e relazioni istituzionali, ambiti fra di loro fortemente interconnessi. Per contatti: it.linkedin.com/in/christianelevati/ e @chriselevati. Fonte: Info-Cooperazione.it.

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