Qual è il rapporto tra il consiglio direttivo e l’unità di fundraising? E’ un argomento cruciale, in modo particolare per chi si interfaccia direttamente al board e al board deve rispondere. A parlarcene, Simona Biancu, collega, formatore e già ospite su queste pagine. Quanto segue è meritorio di attenzione e introduce all’analisi di alcuni aspetti che hanno come centrale la questione dell’efficacia dell’attività di raccolta fondi all’interno dell’organizzazione nonprofit. Perché noi fundraiser lo sappiamo bene: se la capacità c’è, la differenza la fanno le opportunità.

La complessità dell’analisi ha necessitato la suddivisione in due parti. Il contenuto vale l’attesa e la conclusione sarà oggetto del prossimo post. Buona lettura.

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Hands with four puzzlesL’idea di fare il punto sull’argomento “Consiglio Direttivo e fundraising” era all’ordine del giorno della mia lista di cose da fare da diversi mesi, in cui ho raccolto appunti, letto esperienze, osservato. La spinta finale, del tutto casuale, è arrivata durante il Festival del Fundraising: alla Masterclass sulla cultura, Giovanni Festa, relatore italiano ma residente in Canada da parecchi anni, ha affrontato, tra gli altri, l’argomento del Consiglio Direttivo nelle organizzazioni culturali.

Ho trovato l’analisi comparativa interessante, e così ho ripreso gli appunti e tutto il resto, provando a sintetizzare sommariamente tutto in questo ed in un prossimo post.

Definiamo il perimetro, innanzitutto: ci riferiamo al Consiglio Direttivo, o board, o al Consiglio di Amministrazione, cioè all’organo di vertice nelle organizzazioni, al decisore della linea dell’organizzazione e, nella persona del Presidente, a colui che rappresenta legalmente l’organizzazione e risponde per le azioni che la stessa intraprende.

In generale i membri dei Consigli Direttivi non percepiscono compensi per la propria attività all’interno delle organizzazioni nonprofit (non è possibile, qui, procedere ad una disamina puntuale di quanto previsto, in tal senso, dalla L. 122/2010 che tratta, tra le altre cose, dei compensi e dei gettoni di presenza agli organi delle organizzazioni nonprofit distinguendo tra esse a seconda della natura giuridica).

Questo ha un riverbero diretto sul “legame” dei membri del board con la buona causa dell’organizzazione: non essendo legati a quest’ultima da un rapporto fondato su una retribuzione, il coinvolgimento rispetto alla buona causa che l’organizzazione porta avanti è fondato – nella maggior parte dei casi – su una reale adesione morale alla stessa.

Ulteriore conseguenza è che l’espressione “metterci la faccia”, che spesso chi lavora nell’ambito del fundraising utilizza per incoraggiare le persone dell’organizzazione a spendersi per la buona causa raccontandosi in prima persona, appare tanto più valida per quel che concerne i membri del board.

Sono le “facce” che per prime rappresentano l’organizzazione, la sua buona causa, gli impatti che la stessa produce nei confronti di coloro che beneficiamo della sua azione. Il coinvolgimento al massimo livello, da un punto di vista organizzativo, nella buona causa dovrebbe produrre un coinvolgimento forte anche nel fundraising. Spesso, tuttavia, non è così.

Accade molto spesso che i membri dei Consigli Direttivi siano molto impegnati con tutto quello che concerne la vita organizzativa interna e le relazioni esterne (non sempre pianificate e, spesso, con un follow-up basso dal punto di vista dell’organizzazione), ma quasi nulla rispetto al fundraising. La volontà di approfondire questa apparentemente singolare situazione ricorrente mi ha condotto, nelle esperienze professionali, a notare come all’adesione “alta” rispetto alla buona causa, al lavoro nell’organizzazione (naturalmente sono affermazioni fatte in generale, ogni caso è poi davvero a sé), corrispondesse spesso una sorta di generale rifiuto – o meglio, un silenzio – alla mia sollecitazione riferita ad un impegno diretto nel fundraising. E mi ha indotto a riflettere su come anche in questi casi, così come nella gran parte delle questioni riguardanti il fundraising, l’atteggiamento sia spesso riferibile ad una questione di cultura, di approccio, e che il lavoro da fare – il caso di specie è quello di un board coinvolto ed attento all’organizzazione, non quello di consiglieri di amministrazioni che esistono solo sulla carta – era di tipo formativo-culturale.

Il training per il consiglio direttivo è, oggi, uno degli aspetti che più frequentemente ricorrono nelle mie consulenze; e, rispetto ad uno scetticismo iniziale, noto che quando i risultati arrivano si produce quel circolo virtuoso per cui il livello di coinvolgimento sale e lavorare sul fundraising non è più fonte di stress o di imbarazzo.

Ecco allora un primo suggerimento, preso dall’esperienza quotidiana:

Il Consiglio Direttivo è coinvolto nella buona causa, motivato, ma rifiuta di occuparsi di raccolta fondi o, in alternativa, ignora l’argomento (nel senso che non lo considera parte del proprio lavoro).

Può essere utile verificare – meglio, approfondire – la conoscenza, da parte dei membri del board, del concetto di fundraising. Quello che spesso noto è una sorta di riconsiderazione dell’atteggiamento di cui sopra quando “racconto” che raccogliere fondi deve in primo luogo partire dalla costruzione di una relazione. E’ come se le persone si sentissero sollevate, più a loro agio, rispetto ad un rapporto che immaginano fondato esclusivamente su una richiesta di soldi.

E’ il misunderstanding di fondo legato al fundraising. Che causa imbarazzo, o scarsa sicurezza, o senso di inadeguatezza rispetto al coinvolgimento di relazioni proprie sapendo che saranno legate esclusivamente a un discorso economico. Nulla che non sia comprensibile o condivisibile, se l’impostazione è questa. Ma il fundraising è altro, è intavolare un discorso basato su una condivisione di interessi che porta poi, certo, a un sostegno fattivo, ma in una relazione i cui fattori sono esattamente in ordine inverso rispetto a come spesso li si interpreta.

Al termine delle sessioni formative che fanno molto spesso parte dei miei percorsi di consulenza, e che prevedono anche una parte di simulazione di casi-studio di richiesta fondi, noto che il feedback che più spesso mi viene restituito è “ma così è più semplice, non mi mette ansia”, al quale segue di solito una maggiore disponibilità perlomeno a valutare la possibilità di impegnarsi – ed impegnare le proprie relazioni – in prima persona.

Il mio suggerimento è dunque quello di approfondire l’atteggiamento “perplesso” del board rispetto al fundraising: spesso quello che viene percepito come un rifiuto è semplicemente un modo educato per dire che l’argomento non è considerato “accettabile” nella misura in cui costringe a chiedere soldi ad amici, conoscenti, e così via.

Sta a chi si occupa di raccolta fondi – fundraiser interno o consulente – fare il passo successivo per ricondurre la questione alla sua dimensione corretta. E la formazione, la cultura del fundraising, io credo sia la strada da percorrere per trasmettere un approccio corretto alla questione.

(VAI ALLA SECONDA PARTE)

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GUEST POST. Thank to:

Simona Biancu, per sapere di più su di lei, la trovi qui: Progetti per il Fund Raising e la Responsabilità Sociale d’Impresa. Seguila su Twitter: @simona_biancu

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