Il mondo nonprofit è bloccato nel suo crescere.

Ad affermarlo un sempre fresco Valerio Melandri durante il suo intervento di apertura dell’XI edizione del Master in Fundraising dell’Università di Bologna.

Ecco i peccati che sembrano contraddistiguere il Terzo Settore e che il professore sviscera con una semplicità e un’efficacia che non lasciano spazio a molti dubbi:

1. COMPENSI E RETRIBUZIONI.Nel mondo nonprofit – afferma Melandri a proposito della differenza importante in termini retributivi tra il secondo e il terzo settore a parità di ruolo – l’idea è che se guadagni poco sei bravo e se guadagni molto sei uno sfruttatore. Il rischio reale è che i talenti, alla lunga, decidano di fare altro”. A sostegno della sua tesi, tema sempre caldo tra i professionisti, l’articolo di Achille Saletti sul Fatto Quotidiano dello scorso giugno, uno spaccato disinteressanto che lascia pochi margini di replica e a cui rimando volentieri.
2. MARKETING.Guarda come vengono usati male i soldi che noi abbiamo donato”. E’ questo il pensiero comune da parte di pubblico e media in merito alle scelte in visibilità dal parte del nonprofit. L’investimento in pubblicità non è contemplato e percepito come dubbio. Ma la comunicazione insegna: no comunicazione, no visibilità, no notorietà, no ritorni. Stop. Il meccanismo è tanto semplice quanto pacifico.
3. VIETATO RISCHIARE. VIETATO SBAGLIARE. I “denari” vanno preservati dal rischio. Come sopra, l’azzardo non è contemplato e l’errore non accettato.
4. TUTTO E SUBITO. Pensare alla raccolta fondi in termini strategici significa individuare una serie di attività pianificate che si articolino per dare risultati di sostenibilità crescente, anche nel lungo periodo. Insomma, per fare cose buone ci vuole il suo tempo, in particolare se si pensa di adottare strumenti che, per loro natura, è facile diano risultati non immediati. Due casi su tutti, una campagna lasciti o il 5×1000.
5. IL PROFITTO COME INVESTIMENTO per aumentare la crescita del capitale. Le imprese nonprofit vivono una situazione di sottopatrimonializzazione fisiologica data dal fatto che, mancando l’interesse opportunistico, non vi è – naturale conseguenza – l’interesse a investirvi.
6. LA DESTINAZIONE DEL DONO. Detto in altri termini: qual è la percentuale che va al progetto e quale alla struttura? E’ questa la domanda principale che il pubblico pone all’ente. Il problema (grande) è educare il donatore che il progetto è fatto di una serie di elementi di cui i costi di struttura (personale, gestione, etc.) sono parte integrante perché concorrenti al raggiungimento degli obiettivi sociali.

Sul finire, gli fa eco Stefano Zamagni, portando all’uditorio il settimo e ultimo aspetto critico del nonprofit nostrano e a completamento di un quadro ricco e di per sé esaustivo.

7. GOVERNANCE NON DEMOCRATICHE. Pensando in termini di sussidiarietà – spiega il professore – viviamo un paradosso: mentre le imprese for profit di tipo capitalistico stanno andando verso una governance democratica, il cosiddetto democratic stakeholding – ovvero rendere partecipi tutte le classi dell’impresa al processo decisionale (leggi Shared Capitalism, Capitalismo Condiviso di Krusee e Freeman) – il nonprofit, al contrario, è frenato nel suo sviluppo per via del ruolo di privilegio ricoperto dai rapporti personali e stabili tipici della sussidiarietà orizzontale (vedi il precedente post). Così facendo risulta difficile il cambio generazionale e, di conseguenza, compromessa la spinta innovativa.

Ecco: per quel che mi riguarda, io li condivido nella loro integrità. Ciascuno di questi punti, preso singolarmente, prevede implicazioni davvero interessanti e meriterebbe il giusto approfondimento. Per il momento mi fermo qui e lascio a te ogni ulteriore considerazione in merito.

Fonte delle foto: Master di Fundraising.

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