Frustration stress and writers blockAhi ahi ahi. Che succede, caro collega? Cosa c’è che non va? Perché in tutta onestà sono un po’ preoccupata di questo silenzio. Vorrei mi aiutassi a capire. Pensavo ci sarebbe stata una reazione maggiore rispetto al tema lanciato la scorsa settimana in “Fundraiser chi?”.

Nel mio ultimo post, ponevo quattro domande, banali forse ma tutto sommato essenziali per aiutare noi fundraiser prima e le nostre organizzazioni poi a circoscrivere la professione:

  1. Quanti siamo.
  2. Chi siamo.
  3. Cosa facciamo.
  4. Dove vogliamo andare.

Non capisco se sia timidezza, carico di lavoro eccessivo o disinteresse.

Se è timidezza, posso comprendere. Esporsi pubblicamente per molti può essere un ostacolo. Ma per esperienza, credimi, a lungo andare aiuta e, di certo, fa stare meglio.

Se è carico di lavoro, anche. Lo sappiamo. Le priorità sono altre e in queste non rientra il rispondere a un post. Ma attenzione: non è il rispondere a un post che fa la differenza. Potrebbe anche non avvenire ma promuovere il dibattito su canali diversi, con interlocutori diversi, in modi diversi, ecco… questo sì che fa la differenza. E aiuta a tenere l’attenzione alta e l’occhio di bue sempre puntato.

Se è disinteresse… be’, questo sì che mi preoccupa. Parlavo l’altro giorno con Riccardo Bonacina (@rbonacina) di Vita (so mi perdonerà se lo cito) e mi parlava di “inesistenza del punto di vista dei fundraiser”. E questo non va bene. Parafrasando la collega Elena Cranchi (@LaCranchi) in un suo ultimo intervento a proposito dell’esperienza della raccolta fondi nel real di Flavio Briatore The Apprentice: “molte volte non facciamo cultura ma ci lamentiamo se gli altri ci copiano” (vai al post di Lorenzo Maria Alvaro). Appunto.

Per quel che mi riguarda, sono solita giocare a carte scoperte, mettere tutto sul tavolo e poi cominciare a fare ordine. Ma le cose sul tavolo vanno messe tutte, a cominciare dalla volontà di mettersi in discussione. Ma qui, forse, sta il vero problema.

Chiudo con il commento di Alberto Cuttica (@albertocuttica) in risposta al mio post. La penso esattamente così e non avrei potuto esprimerla meglio: “I fattori da considerare e ordinare sono effettivamente diversi. A monte c’è senz’altro un generale disinteresse più o meno palese. Indagare le ragioni è senz’altro già un passo per affrontare il problema: noto disinteresse da parte delle organizzazioni e da parte degli stessi professionisti. Vuoi perché tutti vedono la cosa come attività speculativa, meno utile rispetto all’operatività quotidiana. Vuoi perché mettere in discussione un tema significa porsi problemi ed affrontarli. Organizzazioni e professionisti sono grandi contenitori dove, qui e là, c’è anche molto pressapochismo e difesa del particolare: il rischio che emergano ancora meglio non stimola certo ad una discussione seria. E’ l’approccio che caratterizza il Paese in tutto, questo campo è solo un esempio, più o meno rappresentativo. Quanto questo danneggi tutti (le organizzazioni, lo staff, ecc.), e non aiuti a lavorare con obiettivi seri, strumenti adeguati, valutazione degli impatti, ecc., prima o poi dovrà essere valutato onestamente. Diversamente si continuerà a remare in direzioni sparsa, mantenendo un aspetto da armata brancaleone che non credo porti frutti entusiasmanti.”

Io spero tanto sia solo per via di un carico di lavoro eccessivo. La bella notizia? Siamo sempre in tempo. Basta volerlo. Davvero.

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