C’è un modo giusto e un modo sbagliato di essere nonprofit? Me lo sono domandato spesse volte. Quel che è certo è che c’è un errore di fondo nell’intenderlo e nel viverlo.

Comincio da qui, senza la presunzione di voler raccontare una verità assoluta ma con l’auspicio di contribuire a chiarire alcuni tratti che ci fanno vivere così male alcuni aspetti del Terzo Settore; vittime consapevoli di moralismi fuoriluogo di cui noi stessi siamo – qui sì, è il caso di dire e seppur inconsapevolmente – i carnefici.

Il problema di fondo è uno solo e parte dal nome: NONPROFIT. Eccolo. Ci risiamo, penserete. Eh sì. Perché le parole sono importanti. Hanno un peso e significati definiti. E nonprofit di per sé non contribuisce a rendere giustizia al grande lavoro e al grande operato che gli attori del Terzo Settore portano avanti. Quindi, chi fino a ora ha pensato che essere nonprofit significasse lavorare in perdita o che è cosa buona e giusta presentare un bilancio poverello per proporsi a status di ONP, be’… è necessario cambi il proprio modo di intendere. Perché è da qui che prendono il via demagogia e demonizzazione della parola denaro che avvita il nostro settore su se stesso, impedendogli di crescere come invece è giusto che sia.

Tre aspetti su tutti:

  1. “ASSENZA DI LUCRO” o “ASSENZA DI PROFITTI”. Vuol dire tutto e non vuole dire nulla ma di certo non significa “Assenza di utili”. Assenza di lucro significa reinvestire l’eventuale utile nell’attività di impresa. Interamente. Per il perseguimento degli scopi statutari. Va da sé che l’assenza di utili significa impossibilità di raggiungere i propri obiettivi e di svolgere le proprie attività semplicemente perché non si hanno le risorse per farlo. Questo nel migliore dei casi. Ma può significare anche incapacità di gestione d’impresa con relativa dispersione e frammentazione delle risorse stesse in attività poco produttive. Ma da qui partirebbero riflessioni che, giocoforza, mi porterebbero ad analizzare un altro aspetto interessante – soprattutto per la fundraiser che c’è in me – e che hanno a che vedere con l’andamento contabile nella storia dell’ente con relativo impatto su fiducia e reputazione dell’organizzazione. E la cosa ci porterebbe inevitabilmente lontano.
  2. COSTO E INVESTIMENTO. Una voce di spesa che va interpretata. Una campagna di raccolta fondi, uno spazio pubblicitario, l’acquisto di un furgone, un collaboratore. Che si tratti di cose o di persone, la domanda che occorre porsi è: qual è il beneficio reale che porta con sé? La risposta fa pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra. Con conseguenze logiche.
  3. GRATIS E GRATUITO. Non significano la stessa cosa. Una cosa gratis vale quanto il valore che le si dà. Ovvero, nullo. La gratuità, diversamente, comporta sempre e comunque un do ut des, uno scambio che impegna gli attori coinvolti in un reciproco interesse. Nel caso di una causa sociale, virtuoso naturalmente. E questo è un aspetto molto interessante che si lega anche al lavoro volontario e ai valori reali e ideali che porta con sé e che contraddistinguono il nostro modo di essere e di fare sociale.

I luoghi comuni sono buoni per stare al caldo nelle nostre convinzioni e al riparo dal cambiamento ma non sono utili alla crescita e alla volontà di emergere di un Terzo Settore sempre più pulsante.

Questi sono solo alcuni dei luoghi comuni che il nonprofit vive ma, come in ogni professione, ce ne sono molti altri. Alcuni noti ai più. Altri meno. Vale la pena parlarne. Hai qualche esperienza da raccontare? Raccontacela qui.

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Il presente post esce in doppia pubblicazione: su NONPROFIT BLOG e su VITA.IT.

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