“Alla fine, secondo me, ci vuole per tutti una bella iniezione di etica, profit e non (…)” scrive Silvia nel suo commento al post sui modi di reclutamento dei dialogatori raccontati da Repubblica.it.

Chiudo l’argomento proponendovi tre storie con tre vissuti diversi arrivati su queste pagine che raccontano esperienze diverse. Volutamente non sono intervenuta sui testi attenendomi al solo “copia e incolla”, in modo da salvaguardare spirito e pathos del momento in cui sono stati scritti. Concludo parafrasando Luciano Zanin, presidente di Assif, nel suo intervento: in qualità di consigliera e di professionista, mi metto a disposizione di chi desideri avere informazioni sul tema, opinioni, suggerimenti e consigli.

Giovanni, 7 gennaio 2012. Post

Io lavoro come dialogatore da un anno, e mi piace tantissimo questo lavoro, soprattutto perché ho ricevuto una formazione direttamente dalla ONG con cui collaboro, non ho MAI avuto a che fare con agenzie, nessuno mi ha mai emarginato per scarsi risultati nè osannato per buoni risultati, siamo un gruppo di ragazzi molto motivati verso l’associazione e tra di noi qualcuno è anche volontario nella stessa ONG, di cui non voglio fare il nome. Io credo che la GRANDISSIMA DIFFERENZA è fatta dalla selezione e dalla formazione. Se questa è fatta direttamente dalla ONG, conterà tantissimo la motivazione verso l’associazione, oltre ovviamente alla capacità comunicativa. L’agenzia invece guarderà solo la seconda, con gravi picchi di competizione, rampantismo, voglia di soldi e basta. Che ne pensate? Ricordate che per le ONG completamente indipendenti il dialogo diretto è la fonte di sostegno principale, circa l’80% dei fondi provengono dai dialogatori. quindi è un settore molto importante, esattamente quanto gli altri.

Riccardo, 27 settembre 2011, Post

(…) a mio avviso siamo di fronte ad una bolla del fenomeno del Face to face a provvigioni veramente tanto grande e sottile quanto drammaticamente tragia e scandalosa.
Mesi fa ho collaborato con (un’agenzia) credendo di essermi inserito non tanto nel fund-raising ma almeno nella manovalanza di esso. Invece ho dovuto scoprire ben altro . (…) Un lavoro che a suo tempo avevo cercato perché uno dei miei desideri era proprio quello di lavorare nel no-profit, in quanto facevo ciò che esattamente credevo.
Collaborando in tale società però ho scoperto un mondo che sinceramente avrei voluto non vedere.
Ho trovato persone di successo in quella società che non esprimeva il benchè minimo interesse per i contenuti per cui raccoglieva i fondi. Mi domando come si possa pensare di “cambiare il mondo” con persone che nei briefing che facevamo ogni giorno prima di andare sul campo ti parlavano della bellezza di “fare i soldi” e di non preoccuparsi per i colleghi ma di pensare esclusivamente alla propria carriera e che a fine giornata di un banchino o porta a porta la domanda fatidica era esclusivamente “quanti pezzi hai fatto?” e se superavi un certo numero di pezzi, considerato accettabile, eri festeggiato e osannato e se invece ti tenevi al di sotto di tale soglia dopo un po’ di tempo venivi emarginato se non addirittura mobbizzato, tutto ciò perché i tuoi risultati, sott’intesi in senso economico, erano “di merda” come spesso ti veniva detto!
Oppure che le donazioni piccole erano “carta igenica”!!!!
Avendo visto questo pensavo di aver già visto tutto di quella società. Invece quando sono andato a fare visita in altri centri ho trovato un clima ben peggiore in cui, durante un briefing Il presidee del centro di turno una volta dichiarò esplicitamente “ di questo lavoro non mi frega niente, faccio questo perché guadagno tanti soldi, 6000 euro al mese, se mi date un altro lavoro in cui possa guadagnare di più ditemelo perché prima possibile voglio comprarmi una nuova auto più potente, TV led, idromassaggio …ecc…”, rimasi ovviamente allibito,scandalizzato offeso nel profondo all’udito di simili parole, soprattutto pensando ai sani principi delle organizzazioni clienti, alla fame e le enormi ingiustizie che attanagliano il mondo odierno per non parlare dell’altriusmo e fiducia che avevo trovato nei donatori che anche con me avevano sottoscritto il rid, COME SI PUO’, MI DOMANDO, ANCHE SOLO PENSARE DI FARE SOLDI SU CERTE SITUAZIONI E CERTI PRINCIPI, SENZA IL MINIMO SENSO ETICO. Altri colleghi mi hanno poi confermato che, facendo visita in altri centri d’Italia la situazione era simile se non ancora peggiore.
Uscito da quel lavoro ne ho immediatamente parlato con le dirigenze di lle ong clienti che mi hanno promesso che appureranno maggiormente la questione nonostante i chiaramenti e cambi di rotta avuti in passato.
Però, non credo di essere un puritano se mi scandalizzo ugualmente di fronte agli stipendio milionari che la dirigenza di tale società prendeva per non parlare dello sfruttamento a cui sono sottoposti i dialoga tori con orari sempre più “elastici” a piena discrezione della società anche degli oggetti personali per portare a termine il lavoro . Per carità tutto ciò nei limiti del lecito e rispettando il contratto ma sappiamo che ci sono tanti modi per sviare tali regole no? Quindi io capisco l’esigenza impellente di queste ong di reperire sempre più finanziamenti per i propri obiettivi e progetti, ma mi domando come si possa raggiungere alla lunga la vision dichiarata se nella parte del mondo dove si reperiscono finanziamenti questi non sono totalmente limpidi, giacché dati da sfruttamento lavorativo e scarsissima coscienza da parte di chi dona o raccoglie. Non sarebbe forse meglio, se necessario, RINUNCIARE a certi finanziamenti e donazioni e “guadagnarli” molto di più sul piano etico. Trovando ad esempio donatori molto più consapevoli e sensibilizzati e qualificando molto più tutto il sistema della donazione. La mia paura più grande è che questo sistema prima o poi esploda e lì saranno guai non solo per le Ong (…) ma anche per tutto il sistema del no-profit. Per essere espliciti penso che il pericolo più grande è che le persone non percepiscano più la differenza tra no e for-profit, e il guaio soprattutto in termini di fiducia sarebbe grandissimo!

Raffaele, 6 gennaio 2012, Post su Linkedin

Io ho fatto il dialogatore, per poco perchè giustamente poi mi hanno licenziato non avendo stipulato un numero di contratti decente, pardon per la precisione RID. Personalmente il legame cooperante- dialogatore non è effettivamente chiaro, ma reputo che per chi studia cooperazione uno dei primi passi per conoscere una ONG è iniziare a entrarne a far parte. E il metodo più semplice è proprio cominciare come dialogaore. Certo fondamentale è condividere la mission e le idee dell’Organizzazione, nel mio caso questo c’era e c’è, ma il punto era l’utilizzo strumentale della empatia, infatti veniva richiesta a prescindere come dote da allenare, non per informare e sensibilizzare, ma per convincere sostanzialmente. Questo mette il dialogatore sul piano del procacciatore di affari. E se non ne fai un numero tot , a prescindere che hai passione e conoscenza, semplicemente puff non lavori più, o meglio non cominci visto che devi passare il periodo di prova di 15 giorni. Io non credo che la situazione si risolva denunciando e tutto, alla fine il problema è alla base, tutte le ong più o meno usano i dialogatori in questo modo sostanzialmente, e il trattamento è pressochè uguale in tutte le Organizzazione, e lo so perchè ho fatto 5 colloqui e più e le condizioni erano identiche, cambiano i bonus ma alla fine il gioco rimane quello. Forse l’unica cosa possibile è aprire strade alternative percorribili realmente per entrare a far parte di questo mondo. (…) Infine non voglio abbandonare il terzo settore, non ci riesco, ma vorrei entrarci prima.

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