E’ lecito parlare di un nonprofit a rischio di regressione culturale?

Mi preoccupano le pressioni sul nonprofit in corso di maturazione in questi ultimi tempi. Ancor di più, mi preoccupano le riflessioni che nascono al suo interno. Da più parti, e con oggetti di discussione tra loro diversi, percepisco un certo timore che, a seconda dell’interlocutore coinvolto, diviene sdegno, diffidenza, sfiducia, sorpresa, superficialità. A scriverne, ciascuno con obiettivi e punti di partenza diversi, sono colleghi con estrazioni diverse; decisamente più autorevoli della sottoscritta ma che riflettono, confermandoli, i percorsi che i miei scritti hanno più volte preso parlando di dinamiche del Terzo Settore.

Ho letto con estremo interesse i pensieri di Franco Bomprezzi pubblicati su Vita.it nei giorni scorsi. Franco è un caro amico. Abbiamo più volte lavorato insieme. Entrambi ci occupiamo di disabilità, ciascuno con il proprio ruolo. Franco si occupa di diritti. Io di comunicazione. Ciononostante, le nostre percezioni in merito allo stato di salute del Settore si sono, in qualche modo, sovrapposte.

Ne riprendo in parte il concetto. Scrive Bomprezzi: “C’è una nuova violenza nell’aria. Ci riguarda. Tocca un po’ tutti coloro che per necessità o per attenzione abituale si occupano di welfare, di diritti e di servizi. Le cronache quotidiane, le conversazioni private, le storie che conosciamo da vicino, ci raccontano di una progressiva – quasi ineluttabile – questua sociale, pubblica ma anche individuale (…). Si fa strada un modo di argomentare, del tutto trasversale politicamente e culturalmente, che tende a dare forza e valore a tutte quelle azioni positive che portano comunque a un risparmio, a una minore spesa, a una riduzione dei costi presenti e futuri. (…). – conclude Franco – E’ la cultura del “pressappoco”. (Siamo) mendicanti di diritti.”

Questua sociale… Solo qualche tempo fa ne abbiamo parlato a proposito di fundraising (vai al post). Ne parliamo ora in relazione ai diritti. Da più parti si chiede che il Terzo Settore maturi, che prenda consapevolezza delle proprie capacità e del proprio ruolo nel Mercato. Si parla di un 4,3% di PIL al quale si accompagna una capacità di rispondere ai bisogni insoddisfatti che non ha pari, né con il primo né tantomeno con il secondo settore. Con un servizio di qualità e a costo zero o, comunque, a prezzi politici. Dove domanda e offerta il più delle volte coincidono.

Allo stesso tempo, ci capita di essere i primi a frustrare le situazioni e a indicare come storture comportamenti virtuosi che (forse) varrebbe la pena, contrariamente al pensiero comune, emulare per emergere. Azioni che hanno più a che vedere con il velo di buonismo un po’ fisiologico che contraddistingue il nostro nonprofit che con la buona volontà di mettersi in discussione. Allo stesso modo, la superficialità di cui parla Massimo Coen Cagli nelle sue riflessioni a caldo sull’ultima ricerca condotta dall’IID (Istituto Italiano della Donazione) in merito agli andamenti del Mercato della raccolta fondi nel nostro Paese – e a cui fa da eco il commento perentorio di Valerio Melandri all’articolo di Gabriella Meroni la misura del grado di autolesionismo a cui il taglio che si dà a questo tipo di comunicazione ci sta abituando.

C’è una profonda povertà di fondo. Una povertà che paradossalmente nasce da una ricchezza di spirito, di inventiva, di élan vitale che non ha pari.

Cari amici, chiediamocelo: è proprio questo ciò che vogliamo? Esasperare l’autocritica non solo ci rende meno forti ma mette in moto un meccanismo vizioso con effetti collaterali di lungo periodo sulle nostre politiche di Welfare. Il rischio involuzione è tangibile, favorito dal pessimismo di fondo tipico del momento storico che stiamo vivendo a livello globale. In gioco ci sono la credibilità delle nostre professioni, la bontà del nostro operato e, sopra ogni cosa, la fiducia che i nostri destinatari ripongono in noi.

Come in un déjà vu, il quadro descritto da Bomprezzi passerà da patologico a cronico, fino a diventare, in breve tempo, fisiologico e, come tale, passivamente accettato. In una sorta di analfabetismo di ritorno.

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