Rifletto e scrivo mentre attendo che i meccanici si prendano cura della mia auto, ancora una volta in panne, nonostante la giovane età e la cura riservata. E’ sempre così, mi dico: se una cosa nasce male, potrai sì farla riparare, ma di quando in quando tornerà a presentarti il conto.

Che sia un’auto, che sia un fatto della vita, che sia un atteggiamento, il corso delle cose è questo:

Le cose vanno secondo l’impronta che dai loro. E questo accade anche per il fundraising.

Nel corso dei giorni scorsi, in particolare in merito al report sui risultati del dono negli Stati Uniti (Giving USA 2015), si è lungamente parlato (in particolare sui social) di come siamo abituati a fare raccolta fondi nel nostro Paese.

Ma siamo poi così certi che Italia-Usa siano così distanti? Nel pensiero “popolare” del fundraising, direi di no.

Nel suo post, Nell Edgington, presidente di Socialvelocity.net, ci dà un quadro chiaro di come stiano effettivamente le cose, anche Oltreoceano. Scrive:

Inutile girarci intorno: senza soldi non c’è cambiamento sociale. Ma il come, il know how, l’esperienza e le risorse disponibili per generare e favorire adeguati flussi finanziari hanno vita breve nel nonprofit. Questo stato delle cose potrebbe cambiare se vi fossero nuove strade e nuovi modelli di finanziamento atti a incentivare nuovi modelli di finanziamento più idonei e strategicamente più sostenibili.

Edgington individua alcuni limiti che àncorano lo sviluppo del nonprofit, limiti che condivido come ben sa chi mi legge. Vediamoli elencati e attualizzati per il contesto nostrano:

  1. Il nonprofit deve imparare a raccogliere fondi o perirà: banale ma è così. Il fundraising non va ignorato. I membri del consiglio non amano chiedere soldi e, dal lato del donatore, esiste una certa ritrosia a donare, in particolare a donare a enti di nuova costituzione o comunque di piccola entità. Occorre quindi dotarsi di strumenti che mettano le organizzazioni nella condizione dei chiedere e questo passa necessariamente dall’imparare come si fa. Quindi: potremmo anche avere a disposizione tutte le leve migliori del mondo per mettere un donatore nella condizione di donare ma fino a che non impararemo come chiedergli il dono, di strada ne faremo ben poca.
  2. Non c’è la consapevolezza di cosa sia il fundraising. E’ quindi una questione di cultura e quest’ignoranza, nel senso di non conoscere appunto, vale per entrambi gli attori coinvolti: l’organizzazione e il donatore, con il risultato che chi sa raccogliere raccoglie molto bene (merito suo) e chi invece potrebbe farlo, non lo fa. E la forbice si allarga.
  3. Il nonprofit ha due interlocutori, nella maggior parte dei casi distinti: chi fruisce del servizio erogato e chi ne copre i costi. Il più delle volte, questi due attori non coincidono. La difficoltà sta quindi nel valorizzare il maggiore valore creato. Cosa non facile e che necessita di competenze.
  4. Per raccogliere fondi ci vogliono fondi. E’ necessario investire, pianificare, formare il personale, acquistare beni e servizi. Le nonprofit che sviluppano un modello finanziario strategico integrato con competenze e progetto di missione saranno più sostenibili e lungamente più efficaci.
  5. Donatore e finanziatore dovrebbero diventare attori propositivi, promotori e garanti del cambiamento. Non è più quindi sufficiente donare. E’ necessario che si stabilisca un nuovo patto, seppur non scritto, sul quale fondare un rapporto di reciproco vantaggio. Qualche tempo fa, proprio riguardo a questo aspetto parlavo di una sorta di gentlemen’s agreement.

Ma non è tutto.

A mio modo di vedere, credo esista un altro grande limite: noi. La verità, così penso, è che tutto parta da dentro e debba partire da dentro. Nella gestione quotidiana delle nostre attività di ricerca e crescita organizzativa dovremmo imparare a porci una domanda molto semplice:

è tutto qui?

E a questa banale questione dovrebbe aggiungersene un’altra altrettando banale:

abbiamo voglia di cambiare?

Se le risposte sono “no” e “sì”, allora siamo pronti al cambiamento e il cambiamento parte dalla cultura e nella comprensione che fare fundraising significa cosa altra dall’attività di ricerca fondi così come ci siamo abituati a intenderla. Ed è tutto molto più complesso di così. E lungamente più affascinante.

Di quest’idea è Marco Grumo, professore di economia e management dell’Università Cattolica di Milano e direttore della divisione nonprofit e pubblica amministrazione di Altis. Dal suo osservatorio certamente privilegiato, Grumo ci dà una visione interessante di ciò che si articolerà intorno al tema della sostenibilità da qui ai prossimi anni:

La sfida più grande delle imprese sociali per i prossimi anni sarà, secondo me, passare da modelli operativi basati in vario modo sulla finanza derivata (in particolare quella pubblica) a modelli capaci di alimentare, ed essere alimentati, dalla finanza autoprodotta, e cioè generata direttamente da attività di elevato valore sociale, ma allo stesso tempo capaci di produrre congrui livelli di autofinanziamento (possibili certamente anche nel mondo sociale), posto però un corretto approccio imprenditoriale e manageriale nella gestione delle organizzazioni e dei progetti. Tutto ciò non è però realizzabile assumendo un orizzonte di ragionamento esclusivamente di breve periodo, ma deve essere adeguatamente e attentamente pianificato, sia in termini strategici che operativi, andando ben oltre i caratteri di una troppo diffusa gestione emergenziale e inerziale, che sempre produce nelle organizzazioni elevati livelli di dipendenza e fragilità finanziaria, decisamente poco coerenti con la costruzione di imprese sociali solide e virtuose, ma soprattutto capaci di vivere in ambienti altamente competitivi.

Di Marco Grumo è la direzione dell’impegnativo ma decisamente stimolante Master MHUSE che sto seguendo e che in settembre si avvierà in conclusione nella sua prima edizione. Un percorso formativo che ti consiglio vivamente se stai pensando di dedicarti a un fundraising che mi piace considerare trasversale, integrato e organizzato (qualche cosa a tal proposito, se ben ricordi, l’ho scritto qui).

Così, nell’attesa che l’auto mi venga restituita e io mi possa nuovamente mettere in viaggio per raggiungere (dita incrociate) la mia destinazione entro sera, scrivo questo lungo post, consapevole che a farmi compagnia c’è il pensiero dei tanti amici che – come te – leggeranno queste riflessioni e che, come sempre e se lo desiderano, sapranno arricchire di punti di vista questi pochi pensieri in libertà.

(19 giugno 2015, sull’A4).

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