Beneficenza. Obolo. Questua. Elemosina. Offerta. Quanto è ricca e affascinante la lingua italiana? Talmente ricca che puoi fare affidamento a sinonimi per evitare, nello scrivere, di ripeterti. E questo senza il rischio della ridondanza poiché la profondità sta nelle sfumature. Ma nelle sfumature sta anche la differenza. E la differenza c’è. E’ evidente.

Signore e signori, facciamocene una ragione. Il termine beneficenza va definitivamente mandato in pensione. Ha fatto il suo tempo. Perpetrarne l’attività significa arroccarsi per comodità a termini desueti e controproducenti. Almeno quando parliamo di fundraising, sia chiaro.

Sono passati 1o anni dalla stesura della mia tesi di laurea. Nella premessa iniziai appunto con questo termine. Nelle mie riflessioni, teorizzavo sulla necessità di un cambiamento culturale, anche di tipo gergale, dell’approccio al Terzo Settore e, in modo particolare, alla raccolta fondi. Scrivevo che il problema di percezione non riguardava solo attori terzi; è invece qualcosa che nasce da dentro: una distorsione di vedute che accomuna il nonprofit al resto del mondo.

Noi, genti del nonprofit, promotori e destinatari di azioni di beneficenza. 

Accade così che una mattina, per caso, vedi Uno Mattina (se lo hai perso, vale la pena rileggere il post) e ti accorgi che la tua professionalità è derisa da persone che si occupano di informare ma dimenticano, come prima cosa, di informarsi a loro volta.

Accade così che nei banchetti di raccolta fondi che trovi nelle piazze o in altri luoghi pubblici leggi ancora la parola “offerta” scritta a caratteri cubitali sui collecting box.

Accade così… lascio a te il compito di trovare altri aneddoti, certa che non si tratti di un lavoro arduo.

Cercare di far passare il concetto di professionalità del settore e poi ripiombare nei luoghi comuni è frustrante.

Il problema è molto semplice: se non impariamo a comunicare in modo corretto, difficilmente riusciremo a mettere in moto l’auspicato cambiamento culturale. La mia non è una crociata alla pratica della beneficenza in sé, sia ben chiaro. E nemmeno alla nobiltà del valore o alla virtù profonda del suo significato etimologico. Ritengo tuttavia opportuno affrontare il tema. Parliamo di una maturità crescente del settore; di professionalizzazione del nonprofit; di economia civile; di bilanci e rendicontazione; di marketing, CSR e CRM. Parliamo di tutto questo e altro per poi farci sorprendere, ancora una volta, dal linguaggio comune e dai messaggi che partono da noi e che sviliscono l’impegno costante profuso in questa direzione.

Diamo al termine beneficenza il suo giusto valore e collochiamolo in sedi più opportune. Utilizziamo, noi fundraiser per primi, i termini più corretti e impegniamoci a educare le nostre organizzazioni ad adottare espressioni come dono, donazione, erogazione, liberalità, solidarietà. Tutti vocaboli che implicano un coinvolgimento e un atto consapevole.

Il cambiamento si fa per piccoli assi. Tutto sta iniziare ed essere pronti a correggere il nostro interlocutore. A costo di risultare banali e noiosi. Ma nel volere il meglio per il nostro Settore non c’è nulla né di noioso né, tanto meno, di banale.

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