sky diveSpesse volte mi è stata sottoposta questa domanda. A volte partendo da lontano, con timidezza. Quasi fosse un tabù. Come a dire: buona causa e denaro, presi insieme non vanno bene. A volte, invece, andando dritti al punto, senza troppi giri di parole, nella consapevolezza che il fundraising sia materia che merita di essere affrontata serenamente e, per una volta, in modo serio e senza troppi scrupoli.

Perché presto o tardi, per un’organizzazione che abbia voglia di fare di più (e che ne abbia i presupposti naturalmente), arriva il momento in cui è lecito porsi una sana ambizione di crescita. Anche se banale, questa riflessione non è scontata. Si percepisce forse ma non è detto che avvenga. Se avviene, porta con sé, e inevitabilmente, alcune riflessioni su identità, fattibilità, opportunità, adattabilità, organizzazione. Più semplicemente, presto o tardi arriva il tempo della resa dei conti e dell’analisi di ciò che è stato fatto fino a quel momento per proiettarsi nel futuro, provando a ripensarsi. A fare il salto.

Crescere significa offrire servizi di bene comune a comunità più ampie, soddisfare un bisogno più allargato e ripensarsi in termini strutturali e progettuali. In altre parole, crescere significa riorganizzarsi.

In questa fase, il primo aspetto su cui investire è la costituzione di un’area fundraising che è il mezzo per garantire la vita stessa dell’associazione.

Quindi, pensare all’adozione del fundraising all’interno della propria struttura significa lavorare profondamente sull’organizzazione dell’ente, sia dal punto di vista interno (attraverso la creazione di un’area apposita e dialogante con le altre) che più specificatamente mentale (nuovo approccio: pensarsi impresa con obiettivi specifici e pianificati di lungo periodo).

Quindi, come convincere il cda a investire nella raccolta fondi?

Ho provato a rispondere a questa domanda nel corso del mio workshop dello scorso Festival del Fundraising (le slide sono accessibili ai soli iscritti nell’area riservata) e sono giunta a questa conclusione:

se non c’è una cultura di base ma si ritiene che esistano le condizioni per fare raccolta fondi, l’unico modo per provare a convincere il cda a investire nel fundraising è: investire su se stessi.

Detto in altri termini:

Convincere il cda a investire nel fundraising prevede un lavoro attivo da parte del singolo (volontario, impiegato, consigliere) – e futuro fundraiser – che investe su di sé e sul proprio futuro, riposizionandosi all’interno della propria organizzazione.

Dal punto di vista operativo, sarebbe opportuna la stesura di un documento di fattibilità preventivo da sottoporre al board nel quale mettere in luce e a nudo le caratteristiche dell’ente.

Con questo obiettivo, ho pensato di riorganizzare il percorso tipico della capacity building, ovvero del processo di miglioramento delle competenze di tutte le attività legate allo sviluppo delle risorse umane e del management, in un’ottica nonprofit oriented con particolare attenzione alle fasi di start up e di pianificazione strategica.

Con il processo operativo di start up con mappatura del processo di valutazione e delle azioni, modello operativo al fundraising integrato, provo così a offrire un quadro articolato delle attività di analisi e rendicontazione che vanno necessariamente considerate per presentare al board un progetto di lavoro costruito intorno all’ente e che abbia un senso compiuto.

Nelle slide che seguono, presento il modello nel suo complesso, partendo dalle 4 macrofasi che compongono il processo:

  1. Assessment. Individuazione e valutazione dello stato dell’arte; disanima dei risultati, individuazione priorità e obiettivi; misurazione azioni pregresse e dei progressi; analisi competitor.
  2. Planning. Piano d’azione con individuazione risorse e opportunità.
  3. Doing. Attuazione sullabase del piano d’azione.
  4. Checking. Valutazione e ridefinizione azioni. Confronto, comprensione, accettazione, competenza, impegni futuri.

Ma in fase iniziale, è l’analisi dell’assessment il momento più delicato e sul quale l’attenzione del fundraiser si deve concentrare: la fattibilità dell’orientamento al fundraising passa, di fatto, su un’analisi approfondita dello stato dell’arte dell’ente. In un quadro d’insieme così disposto, ai classici approfondimenti su identità, strategia, strumenti, affianco il concetto di visione che, da solo, mette in luce l’orientamento mentale dell’ente e quindi la sua volotà di azione. Alcune domande per capire:

  • Ho la consapevolezza che la mia Onp opera in un Mercato che compete?
  • Qual è il rapporto della mia organizzazione con il denaro?
  • E quale con i concetti di trasparenza e rendicontazione?
  • Fino a che punto sono disposto a rischiare?
  • E quale il grado di investimento?

Domande semplici all’apparenza ma che meritano, invece, un’analisi profonda e onesta. Un quadrante, quello della visione, da cui dipende, in ultima analisi, la fattibilità o meno dell’investimento nel fundraising. Un lavoro lungo ma necessario e stimolante. Analisi da cui, a mio modo di vedere, non si può e non si deve prescindere.

In fin dei conti, pensiamoci un attimo, quando questa bella avventura ha avuto inizio, nessuno sapeva come sarebbe andata ma i motivi erano chiari: la causa sociale e il sogno di realizzarla. E nessuno ha detto che sarebbe stato facile. O no…

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