Lancio il sasso.  Vorrei riaprire una discussione che, tra l’altro, ho letto essere stata affrontata da qualche altro mio collega in passato  (vedi per es. Beppe CacòpardoValerio MelandriFrancesco Quistelli): l’annosa faccenda del popolo dei dialogatori o di coloro che vengono definiti, non senza un certo appealing, i promoter del nonprofit.

Non è mia intenzione disquisire sui termini. Non è infatti in discussione la tecnica del face to face. Tra tecnici, sappiamo molto bene quanto la relazione interpersonale sia alla base di un’efficace campagna di raccolta fondi. Nemmeno desidero cassarne l’adozione da parte di una onp: potessi, lo farei anch’io…

Le domande che vi pongo sono molto semplici: chi si occupa di face to face fa fundraising? E ancora: chi si occupa di face to face è un (potenziale) fundraiser?

Le mie risposte sono Sì e Dipende. La prima è evidente; la seconda è legata al fatto che lavori a provvigioni o meno. Se lavora a provvigioni è un agente di commercio. E un dialogatore che accetta di guadagnare un fisso + una percentuale sul ‘venduto’ rientra, a mio modo di vedere, in questa categoria.

Da fundraiser ho sposato un’etica professionale che mi impone rigore nei modi e nei contenuti. Trasparenza e correttezza nei confronti del donatore e dell’onp per cui lavoro. La medesima deontologia la richiedo ai miei collaboratori e me l’aspetto da chi ha deciso di intraprendere questa professione.

Non c’è dubbio che il face to face fr sia efficacissimo per l’organizzazione ma sono convinta che questi metodi di affiliazione siano controproducenti con l’andare del tempo per due motivi:

  1. è facile che il giovane motivato (e molto) finisca con il perdere di vista la motivazione iniziale anteponendo la performance personale al valore etico. Insomma, il cinismo tipico e genuino del fundraiser non è detto che non lasci il posto all’opportunismo personale.
  2. la modalità push (invadente ed insistente) finisce con il ledere l’organizzazione.

Il disamore da parte del pubblico può diventare crescente se bambini ed enciclopedie vengono messi sullo stesso piano. A me è successo. E non mi è piaciuto che si sia fatto leva sui miei valori di donna e mamma per propormi un sad continuativo. Un modo veloce e sicuro per perdere reputazione e credibilità nei confronti delle persone che donano con il cuore. Nel contempo, un modo veloce per fare fuggire, a mio parere, giovani motivati che con slancio desiderano entrare in questo mondo: che ci mettono tutta la passione, la volontà e aspettative concrete.

Metto sul banco degli imputati la modalità retributiva. Lo stesso pensiero va alla scelta di un fundraiser di farsi pagare a risultati raggiunti su base percentuale.

Se  ne è parlato. Se ne parla e se ne continuerà a parlare.

Ma ora che la base di interesse cresce in termini di numeri e matura in termini di competenze, è arrivato forse il momento di chiarire questo aspetto una volta per tutte e farlo diventare una discriminante non solo metodologica ma di requisiti di selezione.

In gioco c’è la reputazione della professione e la credibilità di un settore.

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